10.8.12

Venticinque meno cinquanta

Avrei voluto avere venticinque anni negli anni Sessanta. Avrei sicuramente portato la minigonna più spesso di quanto non faccia ora, e il cerchietto in testa. Avrei fatto la stenografa alla Fiat e sarei andata in luna di miele sul Lago di Garda con la Cinquecento, o magari ci saremmo spinti fino a Venezia e quel viaggio, oh quel viaggio, sarebbe stato il ricordo più intenso a cui aggrapparmi nei momenti di sconforto che la vita matrimoniale mi avrebbe messo davanti.

Avrei potuto avere venticinque anni negli anni Ottanta. Sarei stata la figlia di quella stenografa che ha visto Torino negli anni di gloria. Avrei portato i jeans a vita altissima e le scarpe dalla suola piattissima e mi sarei laureata in Lingue a Torino. Francese, ovviamente. E poi un giorno avrei posato le mie chiappe foderate di jeans su un treno per Parigi e probabilmente non avrei mai più fatto ritorno. La versione ufficiale sarebbe stata che avevo trovato lavoro come interprete, ma in realtà in quella metropoli straniera avrei realizzato il sogno di vivere da donna indipendente, anche se per pagare l'affitto avrei fatto la cameriera.

E invece ho venticinque anni nel presente e non sono imparentata né con la stenografa né con l'emigrata. Non ho ancora realizzato né il sogno romantico dell'una, né il vero e proprio progetto d'indipendenza dell'altra, e questo perché mi sembra che ci siano troppe opzioni per dover scegliere a quest'età. Con che coraggio la ragazza che non sono stata negli anni Sessanta ha scelto a venticinque anni l'uomo al cui fianco passare tutta la vita? Con che coraggio la ragazza che non sono stata negli anni Ottanta ha mollato tutto per una città sola, in un mondo così grande? Perché non un altro uomo, perché non un altro posto?

Ho l'età per fare delle scelte, eppure nel presente in cui vivo non riesco a farle. Mi guardo intorno e vedo troppe opzioni. Non ho ancora imparato a vincolarmi a qualcuno o qualcosa per sempre. Chissà se le due ragazze che non sono stata l'avevano imparato quando si sono lanciate a capofitto nella storia delle loro vite?
Quando penso alle donne delle generazioni precedenti ho sempre addosso la vaga sensazione di essere un po' immatura al loro confronto. Ho permesso che la mia vita andasse avanti a ritmi lenti, mi sono concessa il lusso del tempo, e a ben vedere alla mia età non ho ancora cominciato niente, figuriamoci aver concluso qualcosa. Eppure non mi sembra sbagliato.

E se avessero sbagliato loro, a scegliere così presto, troppo presto?

6.7.12

Come te nessuna mai, Torino mia

Articoli come questo accendono qualcosa nel cuore dei torinesi. Siamo gente animata da un sincero orgoglio e da un incondizionato amore per la nostra città, è risaputo. L'ho visto rimbalzare sui social network dei miei amici torinesi quando è uscito. Anche di quegli amici torinesi che Torino l'hanno lasciata, come me. L'abbiamo lasciata per Roma o per Tokyo o per Cracovia ed è forse questo ad alimentare quel fuoco che ci si accende dentro quando vediamo "Torino" scritto da qualche parte dal nostro lontano angolo di mondo.

A dir la verità, io la Torino descritta in quell'articolo non l'ho praticamente mai vissuta. Ho fatto raramente l'aperitivo al Quadrilatero, non sono mai andata a ballare ai Murazzi, non ho mai assaggiato il bicerin in Piazza della Consolata, non faccio shopping nelle boutique d'autore e il Museo del Cinema trovo sacrilego non visitarlo (occupa il primo posto nella mia personalissima lista dei musei da me più volte visitati). Riconosco in tutta onestà che a chi non ha mai visto Torino l'articolo propone posti interessanti dove farsi un'idea dello spirito della città. Perché Torino è chic, e ad alcuni può venire necessario calarsi negli ambienti chic per iniziare a guardare la città dalla giusta prospettiva. Per me, però, non è stato necessario.


Perché poi ci siamo noi, che in quella città siamo cresciuti. Io a Torino non ho trascorso la mia infanzia, ma le do credito per avermi fatta crescere intellettualmente. E quello spirito chic sono riuscita a vederlo anche nei locali da studenti che frequentavo. Ho amato Torino nei giorni di sole seduta su una panchina di Piazza Vittorio tra una lezione e l'altra. Ho amato Torino nei giorni di pioggia al riparo sotto i portici di via Po. Sono salita sulla Mole diverse volte, ma nonostante quello mi sono laureata. Torino è sinonimo della mia vita da studentessa. Il caffè era quello dei bar della zona universitaria, ed è stato quello per cinque anni. Il gelato - al gianduja - quello di Fiorio, quando una pausa in un locale storico ci voleva proprio. Torino per me è il sushi di via Verdi e il kebab di via San Domenico, la pizza al taglio di Piazza Castello e la mensa universitaria di via Principe Amedeo. Torino è lo shopping nelle catene d'abbigliamento in via Roma o nei negozietti pseudoalternativi di via Garibaldi e via Po. Torino è la neve che cade fuori dal finestrino del tram, Torino sono i bagni di Palazzo Nuovo, Torino è stare seduta a piangere sul Lungopo Cadorna, Torino è tornare a casa con un nuovo libro.


Dove sono, allora, tutte le cose chic che leggo nell'articolo del New York Times e in cui apparentemente mi riconosco? Dov'è il battuto di fassone con il sale grosso, dove il bicchiere di Barolo delle sei di sera, dove il caffè con il cucchiaino d'argento in una tazzina così antica che con alte probabilità è la stessa da cui bevve Cavour? Io non ho bisogno di quella spruzzata di eleganza e buongusto per sentire lo spirito di Torino. Perché lo conosco. Torino è chic anche a guardarla dai bagni di Porta Nuova. Anche passeggiando per i Murazzi di lunedì mattina, quando l'odore di un week-end di eccessi non si è ancora dissipato. Anche quando piove per il quinto giorno consecutivo. (Ma poi, Torino sotto la pioggia è ancora più bella che sotto il sole, soprattutto d'inverno quando le pozzanghere moltiplicano l'effetto delle luci d'artista. Ma questo è un altro discorso.) L'articolo recentemente apparso sul New York Times è un ottimo biglietto da visita per una delle città più affascinanti in cui io sia mai stata (e a cui devo cinque anni della mia vita). Indirizza il lettore - nonché, si spera, futuro visitatore - a godere in 36 ore della Torino epicurea. Trentasei ore sono sufficienti, a mio avviso, per capire con che genere di città si ha a che fare. Una volta conosciuta quell'eleganza sofisticata che sa non farsi mai soffocare completamente, ci si accorgerà che a Torino la si respira ovunque. Perché è quello lo spirito che rende una città vecchissima così meravigliosamente giovane.

1.7.12

Una, nessuna e centomila

L'oscurità che si abbatteva ogni giorno troppo presto sulle mie giornate a Oslo e un budget limitato per sopravvivere sei mesi nella città più cara del mondo hanno contribuito a definire quelle che sarebbero diventate le abitudini alimentari del mio soggiorno norvegese. Un solo pasto caldo al giorno, tantissimo salmone perché costava meno del pollo, tantissima cioccolata norvegese perché si era rivelata essere la cosa più buona che io avessi mai assaggiato e una dipendenza dal caffè da asporto perché almeno tiene calde le mani quando esplori la città a diciotto gradi sottozero. Per sei mesi ho praticamente detto addio alla pasta e ai formaggi, a parte qualche rara occasione in cui mi sono piegata agli spagetti o al formaggio "Norvegia" nei panini. Quando si parte per un erasmus la parola d'ordine è: adattamento. Come mi sono adattata a giornate prive di luce in inverno e prive di buio in estate, a uno studentato dove almeno una volta alla settimana suona l'allarme antincendio, a una città meravigliosa ma popolata da persone che non sorridono, mi sono anche adeguata alle nuove abitudini alimentari che sono entrate in modo naturale a far parte della mia routine. Mi sono appesa uno specchio in camera, cosa che non avevo a casa mia, e la vista della mia faccia sbattuta nel weekend mi ha insegnato a truccarmi anche nei giorni in cui non avevo bisogno di uscire di casa. I saldi nelle catene di abbigliamento svedesi H&M e Lindex hanno completato il quadro: ho accolto nel mio guardaroba fiori, pizzi e pallini. Vestiti con cui mi sarei sentita vagamente a disagio a casa, ma che a Oslo si intonavano a meraviglia con l'ambiente e con il mio umore. Tutti questi piccoli cambiamenti mi sembravano una naturale conseguenza dello spirito di adattamento: cibo diverso, vestiti diversi... Mi sarei accorta più tardi che invece erano qualcosa di più: la ragazza dimagrita, griffata Lindex, che si aggirava per le strade di Oslo con un caffè Deli De Luca in mano altri non era che la mia identità norvegese.

Quando sono andata a vivere a Pisa, invece di perdere quattro chili ne ho presi tre. Oltre ai quattro persi in Norvegia, che nel frattempo avevo recuperato. A Pisa la parola d'ordine è stata: cibo. Sette mesi di vita in Toscana hanno rallentato i miei ritmi. Per due giorni alla settimana ero impegnata all'università, e gli altri cinque li passavo in casa. Quando non ero davanti al computer a tradurre, ero in cucina a sperimentare. Lasagne a nove strati con il ragù fatto in casa, lasagne al pesto con pecorino e pinoli, lonza al forno con i pomodori secchi e la mozzarella, fettina di pollo con doppia impanatura, melanzane alla parmigiana, lenticchie al curry e cocco, prosciutto crudo con un melone dolcissimo, torta al cioccolato con la crema di lamponi, polenta concia con tanto burro fuso, minestrone di verdure miste con il semolino, il pollo all'ananas della mia coinquilina, la pasta al limone del mio coinquilino, l'olio d'oliva extravergine artigianale, la crema di limoncello fatta con i limoni del nostro giardino. E dopo ogni pasto il caffè della moka. La mia identità pisana, la cuoca provetta che ha perso di vista il pesoforma, andava a ballare nei weekend. E andava ad assistere a match d'improvvisazione teatrale. E ha conosciuto le gioie del vivere con un gatto.

Nei tre mesi che ho passato a Toronto mi sono fatta conoscere per le mie torte. Ho fatto incetta di utensili e coloranti e ho dato pieno sfogo alla mia creatività. Credo di aver fatto storia, con le mie torte, nell'ufficio dove ho lavorato in quel periodo. Durante il mio soggiorno canadese ho avuto la possibilità di stare a stretto contatto con un ambiente culturale molto stimolante, ho lavorato come fotografa ufficiale agli eventi promossi dall'Istituto, ho conosciuto un ampio spettro di personalità legate a quest'ambiente e non solo. La mia identità canadese era vestita business casual, mangiava sushi almeno una volta alla settimana, aveva le unghie lunghissime e sempre curate, si intratteneva a chiacchierare con i consoli di diversi Paesi europei, degustava birre canadesi e soprattutto faceva le torte. Torte bellissime. La mia identità canadese è stata quella che ha sperimentato per la prima volta la sensazione di non essere più una studentessa ma di aver iniziato a funzionare nel mondo degli adulti.

E poi sono andata a stare a New York e un nuovo stile di vita si è imposto sulle mie giornate. Nel giro di una settimana, avevo già preso pieno possesso di quella che sarebbe stata la mia nuova identità per quel soggiorno. Cinque chili in meno, pantaloni neri dentro gli stivali, unghie cortissime, un fiore tra i capelli legati. Sempre un filo di trucco, sempre un sorriso sulle labbra. Parlavo quattro lingue contemporaneamente, davo lezioni di italiano, frequentavo ristoranti messicani e tornavo a casa in taxi a notte fonda. E poi, verso la fine del mio soggiorno, me ne sono andata tutta sola a vedere il sole tramontare in California. Non ho fatto nemmeno una torta durante il mio soggiorno a New York, non ero più la persona che ero stata pochi mesi prima a Toronto, ero qualcun altro. A New York ero di passaggio, ero una ventata d'aria nelle vite delle persone che ho conosciuto. Sono tornata, e quella ventata è sparita. Anche quell'identità di appena pochi mesi fa non fa più parte di me.

Ora mi sono trasferita a Cracovia e so che sto di nuovo cambiando. Non sono la persona che ero a New York, non sono la persona che ero nei miei viaggi precedenti, e so di non essere nemmeno la persona che sono quando vivo a casa mia. Non ho ancora del tutto inquadrato la mia nuova identità, ma sento che si sta forgiando. Perché mi succede? Non lo so. Credo sia qualcosa che va oltre lo spirito di adattamento a un nuovo posto. È più una necessità di dover cambiare qualcosa di se stessi in modo da essere in grado di funzionare in un ambiente diverso da quello in cui si è cresciuti. Una sorta di manovra di sopravvivenza che protegge l'identità che si ha alla partenza e la mantiene intatta per quando si fa ritorno. E che rende facile, diciamolo, il procedimento di adattamento a un nuovo posto.

14.6.12

Guardando da lontano

Il mio piccolo paese, il posto dove sono cresciuta, è in lutto. Pochi giorni fa ha perso uno dei suoi giovani; sono pochi quelli della mia generazione ad essersene già andati. Su facebook ha rimbalzato per due giorni l'invito a partecipare alla cerimonia per dirgli addio, se fossi stata a casa avrei sicuramente presenziato.

Sono almeno quindici anni che avevo perso di vista Luca, vedo le sue foto ora nei vari articoli dedicati alla sua morte e mi rendo conto che se l'avessi incontrato per strada non l'avrei riconosciuto. I miei ricordi di lui risalgono a vent'anni fa: un bambino che giocava con noi dal balcone quando non lo lasciavano scendere in cortile. "Guarda, c'è Luca", e andavamo a parlare con lui da sotto il suo balcone. Mi rendo conto che questo è praticamente l'unico ricordo che ho di lui: il bambino sul balcone. Chissà perché non lo lasciavano mai scendere a giocare con noi? Forse perché era ancora troppo piccolo. Lui, classe '88, era il più piccolo.

Non ho più saputo niente di Luca negli ultimi quindici anni, anche vivendo in un piccolo paese dove si conoscono tutti ci si riesce a perdere di vista, ma se fossi stata a casa sarei andata anch'io a dirgli addio. E invece sono lontana da casa, lontana dal mio piccolo paese, e tutto sommato sono felice perché io dal mio piccolo paese me ne volevo andare, e pure dall'Italia mi volevo allontanare e tutto sommato sono contenta che sia andata così. Però quando succedono queste cose questa lontananza si fa sentire. Quando si cresce in un piccolo paese, per quanto si possa arrivare a odiarlo, non si riuscirà mai a scrollarsi di dosso la sensazione di farne parte nel profondo. Non conoscevo più Luca, ma Luca faceva parte di quella stessa comunità cui io apparterrò per sempre, per quanto lontano mi ostini a scappare. È in quanto membro di quella comunità che oggi mi sembra mi manchi qualcosa, perché sento che sia dovere della comunità stringersi attorno alla famiglia colpita dal lutto per condividere il suo dolore e l'impossibilità di farlo mi fa sentire che oggi mi manchi qualcosa. L'impossibilità di far parte della comunità che oggi ha detto addio a uno dei suoi giovani un po' mi fa soffrire. È uno di quei momenti in cui riesci a mettere a fuoco certe cose solo guardandole da lontano.

15.5.12

Essere turisti a New York non è abbastanza

Recentemente, scorrendo la sempre gravida homepage di Facebook, mi sono resa conto che nel corso degli ultimi mesi un sacco di gente che conosco è stata a New York, o ci andrà a breve. Una statistica bizzarra. Il fatto che io abbia più di cinquecento "amici" sicuramente aiuta a incrementare le probabilità di avere gente tra i propri contatti che di recente è stata nella Grande Mela: se in media un amico su cento va a New York, non mi dovrebbe stupire il fatto che io ne abbia cinque o sei. Ma la cosa mi ha stupito comunque, perché tra queste persone non c'è assolutamente alcun legame, ho conosciuto ognuna in contesti ben distinti e le uniche due cose che le accomunano sono il fatto che conoscono me e che sono recentemente state nella città americana. Si potrebbe giungere alla conclusione che New York sia una meta davvero universale, poiché ha attratto e attira persone tanto diverse l'una dall'altra. New York offre di tutto, chiunque a New York trova quello che cerca.

Nonostante le persone che conosco che sono state a New York siano tanto diverse l'una dall'altra, ci sono aspetti dei loro viaggi nella metropoli americana che sono comuni quasi a tutti e che appiattiscono drasticamente la varietà umana che normalmente le caratterizza. Sto ovviamente parlando dei classici intramontabili della propria prima volta a New York: la Statua della Libertà, il caffè da Starbucks, le foto fatte nei musei (per far vedere agli amici che la vacanza ha avuto anche un aspetto culturale) e quelle fatte dalla cima dell'Empire State Building, per citarne alcuni. Nonostante New York proponga un'infinità enorme di attrazioni, la prima volta che la si visita, gran parte del tempo viene comunque impiegata per vedere quello che abbiamo già visto in milioni di foto, cartoline, film, siti internet. New York è negli occhi di tutti, chiunque è in grado di elencare almeno cinque monumenti di New York anche senza aver mai fatto grandi ricerche in merito. Eppure, quando si è là per la prima volta, quasi si cerca una conferma di quello che conoscono tutti e si vogliono vedere coi propri occhi quei monumenti che la cultura popolare ci propone regolarmente.

Non c'è niente di male nel voler fare il turista a tutti i costi, anch'io l'ho fatto a suo tempo. Nei quattro giorni che ho trascorso a New York la mia prima volta ho trascinato mia madre in cima all'Empire State Building, l'ho portata a perderci in giro per Central Park in cerca del monumento a Balto (e questo senza aver provato prima a localizzarlo su una mappa, ma confidando che mi ci sarei imbattuta per caso perché ho molta fortuna. Ovviamente non l'ho trovato), ero curiosa di vedere Times Square, Ground Zero, il ponte di Brooklyn e la Statua della Libertà, volevo a tutti i costi prendere il caffè da Starbucks e comprarmi l'originalissima maglietta "I <3 NY", avevo perfino il pallino di Battery Park perché i Cranberries ci avevano girato un video e non potevo certo perdermi la possibilità di farmi una foto in quella che era stata la location di un loro video! Va bene tutto, era la mia prima volta a New York e forse è giusto che la prima volta sia per tutti così tremendamente... standard.

Ma New York offre molto di più. Su questo punto insiste l'autrice di quest'articolo, nel quale cerca di convincere il visitatore ad abbandonare il sentiero battuto per esplorare nuove strade. Nel suo decalogo ho riconosciuto lo spirito che mi ha animato la mia seconda volta a New York, quella in cui mi sono sentita meno turista e più parte della sua incredibile popolazione. Ma andiamo con ordine.

Il primo punto insiste sul disertare i musei più gettonati e dare invece una chance a quelli minori. Ho obbedito a metà, nel senso che in due mesi ho trovato il tempo appena per un museo, uno di quelli gettonati. Non il MOMA o il Metropolitan, ma quello di Scienze Naturali. Ero rimasta così affascinata dagli scheletri dei dinosauri al Royal Ontario Museum di Toronto da non essere riuscita a sfuggire al loro richiamo nell'affine museo newyorchese. Come mi ha suggerito di fare la mia guida (anche spirituale), ovvero la signora con cui ho abitato durante la mia permanenza a New York, ho ignorato il prezzo del biglietto che mi è stato suggerito all'ingresso e ho trascorso mezza giornata a vagare per le sale del museo per 5$:
- Potresti anche pagare 25 centesimi, a loro non interessa.
- Sì, ma è un museo. Bisogna supportare l'attività di un museo!
- Figliola, non hai idea degli sponsor che ci sono dietro a un museo come quello. Se ti fa sentire meno in colpa dai 5$, ma di più non è davvero necessario.
E così ho fatto. Mentre dicevo alla cassa: "I wish to pay 5$" mi sentivo come se stessi rubando qualcosa, ma ho cercato di ripetermi che d'altronde sono solo una povera studentessa viaggiatrice e che i miei cinque dollari erano pur sempre meglio di 25 centesimi.

La Statua della Libertà. Vorrei dire che stavolta non ho nessuna foto che la ritrae, ma in realtà ne ho una, scattata da Brooklyn mentre testavo il mio nuovo grandangolo in una freddissima domenica di metà gennaio. La si vede in lontananza. Quando ero stata la prima volta a New York avevo provato l'esperienza del traghetto gratuito per Staten Island da cui mi ero goduta la vista della signora con la fiaccola e il libro. Sebbene non mi interessasse ripetere l'esperienza e non fossi particolarmente attratta dalla Statua della Libertà al punto di volerla rivedere stavolta, una sera di dicembre un ragazzo con cui i miei cugini mi avevano organizzato un appuntamento mi aveva portata al Liberty State Park, nel New Jersey, da dove l'avevo vista da una prospettiva diversa. Quindi sì, la Statua della Libertà l'ho rivista, ma è stato per caso. Non mi interessa più, dopo che la si è vista una volta, perde tutto il suo appeal. Come la Sirenetta di Copenaghen.

Central Park l'ho evitato come la peste, dopo il vagabondaggio a caso della prima volta. Mi sono ritrovata a costeggiarlo tutti i giorni, perché ci passavo per raggiungere il Columbus Circle da cui prendevo la metropolitana, ma non mi ci sono mai più avventurata. C'è stata una volta in cui avrei voluto avere il tempo per passeggiarci, possibilmente con la macchina fotografica, il giorno dopo un'abbondante nevicata, perché era tutto bianco e immerso nella foschia. Mi sono incantata a guardare il meraviglioso spettacolo che mi si parava davanti agli occhi mentre percorrevo Central Park South, ma non avevo il tempo per fermarmi, e soprattutto non avevo la reflex con me. In ogni caso, non ho più sentito il bisogno di camminare per Central Park. Di scoiattoli ne avevo visti abbastanza a Toronto e per una semplice passeggiata nel verde e una sosta su una panchina a questo giro ho preferito Washington Square.

Devo purtroppo ammettere di essere caduta nella trappola di Magnolia, e di aver infranto la regola numero 5. A spingermi lì non è stato, però, Sex And The City. Non ho mai seguito quel telefilm. Ad accendere la curiosità nei confronti di quella pasticceria è stato il consiglio di una ragazza polacca che ho conosciuto a New York, che mi ha assicurato che lì avrei trovato una delle migliori Red Velvet della città. Ci sono capitata quasi per caso; stavo percorrendo Bleecker Street senza una precisa meta, quando mi ci sono ritrovata davanti e non ho saputo resistere all'impulso di entrare ad assaggiare uno dei loro cupcake. Devo ammettere che un po' sono rimasta delusa, avevo fatto un sacco di ricerche sulla Red Velvet pochi mesi prima e vedere che loro la proponevano con una crema che non è quella canonica mi ha un po' spiazzato. In un certo senso, però, ho anche rispettato la regola numero 5, perché se da Magnolia sono capitata per un motivo non attinente al celebre telefilm che ha reso famoso il negozio, mi sono trattenuta dall'andare a fare due ore di coda per entrate nella pasticceria di Buddy Valastro, di cui sono invece una grande fan. La pasticceria Carlo's l'ho vista da fuori, quella stessa sera in cui il mio mancato spasimante mi ha portato a Jersey City. È bastato che accennassi alla mia passione per Il Boss delle torte perché il diligente ragazzo mi caricasse in macchina e mi portasse a Hoboken. Nonostante quello, però, non gli ho concesso un secondo appuntamento.

La questione dei film e degli spettacoli la dovrei un po' adattare e dovrei fondere, quindi, insieme le regole 6 e 9. Una cosa che non ero riuscita a fare la mia prima volta a New York era stata andare a vedere un musical di Broadway. Questa volta sono partita con l'intento di vedere almeno Mamma Mia! e The Phantom of the Opera, ma mi è andata male e la visione di questi due colossi di Broadway è sulla lista delle cose che farò la mia terza volta a New York. In compenso, però, ho avuto l'occasione di andare a vedere uno spettacolo di una compagnia minore, in un teatro minore e in lingua spagnola, ovvero l'adattamento drammatico di Crónica de una muerte anunciada di García Márquez. Ah, quanto adoro le produzioni minori.

Per quanto riguarda lo shopping, non sono stata a Canal Street e quindi dovrei dissociarmi dalla regola numero 7. Però sono stata da Century 21, e questo più di una volta. Quello è sinonimo di turista tanto quanto le magliette "I <3 NY". Anche da Victoria's Secret sono stata molto spesso, e anche quello è un posto molto gettonato dalle turiste (ricordo una coppia di turisti italiani che era venuta a chiedermi dove fosse la Victoria's Secret più vicina perché dovevano assolutamente andare a farci compere). Ma la celebre catena di intimo è frequentata in ugual misura anche dalle newyorchesi, e quindi lì mi è sempre stato più facile mimetizzarmi e passare per una del posto. Tranne una volta. Mi avvicino alla cassa e poso l'ennesimo carico di mutande sul banco. Al braccio ho appesa una borsa di Century 21. - Da dove vieni? - chiede subito la commessa. Beccata. Tiro fuori la carta di credito italiana e le racconto la mia storia.

In definitiva, dopo la mia seconda volta a New York ho trovato molto interessanti i punti descritti nell'articolo. Sicuramente come mi sono vissuta questa volta la Grande Mela, immergendomi nella sua realtà culturale più profonda e stando a stretto contatto con la sua gente, è stato molto più gratificante del frenetico seguire la lista dei posti imperdibili che aveva caratterizzato la mia prima volta. Ma non biasimo il first timer che disubbidirà alle regole elencate in quell'articolo. Perché l'ho fatto anch'io, a suo tempo, e ho dei bellissimi ricordi di quando anch'io ho posato, come milioni di persone prima di me e in modo assolutamente poco originale, davanti alla Statua della Libertà o sul ponte di Brooklyn.

12.5.12

Che l'est diventi l'ovest e abbiano inizio le danze

Ieri mi sono seduta a un tavolino di Starbucks, posto che sono solita definire sopravvalutato e troppo caro. E che serve un caffè che non è poi mica così buono come vogliono far credere, io ci trovo un retrogusto di bruciacchiato che non mi piace per niente. (Lo so che hanno lanciato il nuovo Blonde Roast che avrebbe forse potuto farmi ricredere su quest'ultimo punto, ma finché ero a New York non ho mai voluto tradire l'abitudine di farmi offrire il caffè da Joseph in un bar ben più esclusivo che Starbucks.) Non nego che ci sono state occasioni in cui anche io ho apprezzato la celebre catena americana. Tipo quando mi sono goduta un frappuccino a Francoforte o quando me ne sono goduto uno a Siviglia. Da Starbucks ho fatto la mia prima colazione a Toronto (ma dal giorno dopo sono diventata cliente fissa di Tim Hortons) e anche la mia prima colazione a Los Angeles (la prima colazione ufficiale, perché ufficiosamente qualche ora prima, quando il pullman si era fermato per un quarto d'ora a Santa Barbara al sorgere del sole, ero scesa a prendere un caffè French Vanilla e una brioche in uno squallido bar da fermata Greyhound). Ieri forse è stato un momentaneo attacco di nostalgia di New York, o forse di nostalgia per quella vita "neither here nor there" che mi piace condurre e che mi manca quando mi fermo in un posto, ma avevo un'ora da passare tra un appuntamento e un altro e ho deciso di trascorrerla da Starbucks. I lati positivi sono tanti: un frappuccino riesco a farlo durare abbastanza a lungo da non sentirmi in colpa per il fatto che sto occupando un tavolino per un sacco di tempo fondamentalmente perché sto scroccando internet. E, appunto, il fatto che abbiano la connessione wifi è un grande punto a loro favore. E poi il frappuccino, tutto sommato, è buono.

Dunque mentre me ne stavo seduta lì a mangiare col cucchiaio la panna dal mio beverone al caffè ho deciso di chiamare mia madre per darle un segnale di vita, ogni tanto se l'aspetta. L'ho chiamata su Skype dal mio smartphone nuovo fiammante. E mentre ero lì che facevo questa telefonata che non mi costava nulla mi ha colpito il pensiero che sono proprio cambiate tante cose da una manciata di anni a questa parte. A un tavolino di Starbucks in un centro commerciale di tre piani a usare la connessione wifi gratis, questo offre la Cracovia di oggi, dimostrandosi decisamente non la città che conoscevo qualche anno fa. Quando non avrei mai creduto che Cracovia avrebbe fatto così in fretta un salto in avanti verso una modernità un po' standard ma comunque ai limiti dell'inimmaginabile non troppo tempo fa. Quando non avrei mai giurato che sarebbe stata proprio Cracovia, e non Torino, a offrirmi interessanti prospettive lavorative. Per la prima volta in vita mia mi sto ritrovando a trascorrere maggio a Cracovia. Nemmeno due mesi fa raccontavo a un amico a New York quanto è incantevole l'Europa a maggio. Cracovia a maggio non l'avevo ancora mai vista...

Seduta a quel tavolino di Starbucks potevo essere a Francoforte come a Los Angeles e invece ero nella città dell'Est Europa a me più cara. E sarà il diverso spirito che mi ha portato a Cracovia questa volta, sarà la stagione diversa, sarà che non mi sono ancora del tutto scrollata di dosso l'aria di quella che è appena tornata dal Nord America, ma non ho mai sentito Cracovia tanto occidentale come a quel tavolino ieri pomeriggio. Cracovia mi ha colpito, erano anni che non succedeva.

14.2.12

Nuova Amsterdam

Ho trascorso tre mesi a Toronto e l'ho lasciata con la consapevolezza di essere riuscita a volerle bene. Non mi sono innamorata di Toronto, ma posso dire che siamo diventate amiche. Ho trovato in lei una città vibrante di cultura, ricca di sfumature, cordiale e sorridente. L'ho trovata calda, accogliente, mi ha saputo offrire l'autunno più mite che aveva in serbo da anni. Toronto e la sua multiculturalità. Toronto e i suoi procioni. Toronto e i suoi Tim Hortons. Gente in coda fuori dai cinema. Foglie d'acero impresse sui marciapiedi.
Non mi sono innamorata di Toronto. Ma ho imparato a volerle bene.

New York l'ho vista per la prima volta nel 2004, avevo diciott'anni ancora da compiere. La prima impressione sono state le miriadi di luci dall'alto mentre il mio aereo atterrava al JFK una sera di giugno. È stato un attimo, come quando incroci due occhi bellissimi in metropolitana e sai subito che la cosa finisce lì. La seconda impressione è arrivata qualche settimana dopo, quando ho finalmente avuto occasione di visitarla. La seconda impressione è stata tutta la sua verticalità osservata dal tettuccio scopribile della macchina che mi stava scarrozzando lungo la 6th Avenue. Avevo diciott'anni da compiere e ne sapevo poco del mondo fuori dall'Italia o dalla Polonia. New York ha la capacità di rapire il cuore del viaggiatore più esperto, figuriamoci se quello di una ragazzina di provincia non era preda facile. Quando mi sono ritrovata per la prima volta in mezzo a quell'esagerazione meravigliosa di luci e colori che è Times Square ho capito che un pezzo di cuore l'avrei lasciato lì. Da quando sono tornata allora ho una cartolina di Times Square appesa sopra alla scrivania in camera mia che mi ricorda dove devo andarlo a cercare, quel pezzo del mio cuore, un giorno, in caso mi servisse. (Non ho mai sentito la necessità di recuperarlo, quel pezzo del mio cuore tutto sommato sta bene lì.) Per anni, ragazzina ingenua che non aveva visto niente del mondo, ho additato New York come la città più bella del mondo. Poi ho iniziato a scoprire l'Europa.

Con Oslo è stato amore a prima vista. Nel momento in cui le suole delle mie scarpe hanno toccato la pista dell'aeroporto Torp ho sentito che mi stava succedendo quella stessa cosa provata a Times Square e non mi sbagliavo. Ho passato tre giorni a Oslo e quando sono salita sull'aereo che mi avrebbe riportato a casa ho fatto una promessa. Sarei tornata, per starci. Per concederci tempo, per conoscerci meglio. E l'ho fatto. Io e Oslo abbiamo avuto una splendida relazione lunga sei mesi, coronata tra l'altro dal semestre più bello e gratificante della mia carriera accademica. Alla fine del mio semestre di scambio l'ho lasciata, ma sono tornata a trovarla due volte. Ogni volta, salendo la scaletta dell'aereo che mi riporta in Italia, prometto alla capitale scandinava che non è l'ultima volta. Ho un debito emozionale enorme nei confronti di Oslo, quando è stata teatro dell'orribile carneficina della scorsa estate il mio cuore ha sanguinato con lei. (Un altro pezzo del mio cuore, se dovessi mai andare a recuperarlo, è sulla spiaggia a Bygdøy che si gode tutti i tramonti dell'anno.)

Sono tornata a New York dopo sette anni. Sette anni che mi hanno vista passare attraverso la maturità, due lauree, un master, diventare maggiorenne, prendere la patente, perdere un paio di amici (una è morta, uno è vivo), perdere la testa per un paio di persone, due cambi di macchina fotografica. E tanti viaggi, tante canzoni e tanti libri. Sono tornata cresciuta, con l'Europa negli occhi. Sono tornata a Times Square a vedere che effetto mi avrebbe fatto, e non mi sono stupita quando il mio cuore non ha accelerato il battito. Certo, la sera mi fa sempre un certo effetto, anche perché sette anni fa non avevo visto Times Square di notte. Ma non è il lato turistico di New York a sedurmi questa volta. Questa volta il mio cuore l'ho lasciato nel West Village. Potrei passare tutte le domeniche a passeggiare lungo Bleecker Street con un caffè da asporto in una mano e un red velvet cupcake nell'altra. A passeggiare per quelle stradine modellate sulle città europee. Sette anni dopo, la laurea in Lingue e l'infatuazione per tutto ciò che è europeo mi hanno resa sensibile a questo lato della città che nel 2004 rapì il mio cuore di turista. Non sono più una turista, adesso, o almeno non solo.

Quello che mi ha colpito e che ho apprezzato di Toronto è il suo essere diversa dalle città europee. Toronto restituisce appieno la sensazione di trovarsi in una realtà metropolitana del Nord America, e lo fa con stile. New York è la metropoli nordamericana per antonomasia, ma le sensazioni che dà non sono le stesse che ho provato a Toronto. New York è una città profondamente europea ed è questo che me la fa amare sette anni dopo. È un amore diverso, più adulto; non la cotta per gli stereotipi scintillanti che ho preso a diciassette anni, ma il ritrovare nell'oggetto esattamente quello che mi piace, esattamente quello che cerco.